Da bambina ho sentito qualcuno raccontare che gli animali, quando giunge il momento di morire, cercano posti talmente solitari per farlo in modo che nessuno possa trovarli.
E ricordo anche che, da allora, non ho mai smesso di chiedermi perché. La morte è forse, per l'animale che se ne sta andando, una vergogna da nascondere? o, più probabilmente , è - al contrario - una festa di cui è l'unico invitaato?.
Ancor oggi non so dissipare questo dubbio. Quelleo che so, perchè lo ricordo distintamente, è che c'è stato un tempo in cui credevo ancora che ci fosse qualcosa dopo la vita su questa terra. Rammento che quando morì Donald, il mio primo, tenerissimo pulcino, lo sognavo tutte le notti. Credo mi volessi illudere che lui, dal paradiso, mi veniva a trovare. E che, una volta che anche la mia vita si fosse conclusa, lo avrei finalmente rivisto.

Spero di non offedndere la sensibilità di nessuno nell'affermare che oggi, invece, non credo in alcuna forma dell'aldilà. Penso che dopo morti, uomini e animali smettano semplicemente di esistere. E che si sparpaglino nell'atmosfera, magari andando a formare nuovi esseri viventi. Eppure, penso ancora adesso che sarebbe infinitamente bello, per me, poter ritrovare, nel paradiso in cui credevo da bambina.

Blues, il cane di mio figlio Albero.

Ricordo che quel dolce, morbido fagottino color miele mi fu portato in dono proprio da lui, dal mio Alberto. Sino a quel momento non avevo mai avuto cani in casa, perchè ero fermamente convinta che dovessere vivere la loro vita da esseri liberi. Ma Blues era ormai lì, sottratto alla sua esistenza di prima, spaventatissimo forse per il trattamente di routine cui l'aveva sottoposto il veterinario e per il trasporto, che doveva averlo fatto star male parecchio, visto che lo studio del veterinario si trovava a ben quarantadue chilometri da casa nostra.
Rammento che rideva, il mio ragazzo, mentre cercava di nasconderlo fra le coperte del suo letto, quasi a sottrarlo al mio squardo di rimprovero. "Un cane in casa? Non abbiamo già abbastanza incombenze a cuo pensare? Non se ne parla nemmeno. Portalo via: Su-bi-to" gli avevo intimato. Sapevo bene, mentre pronunciavo quelle parole, di essere preoccupata sopratutto per il fatto di aver cambiato, proprio poco tempo prima, tende e tappezzeria, dopo molti anni e numerosi tentativi fatti per convincere mio marito Antonio. Unvece, non c'era stato nulla da fare. Alberto, diceva che quel "pallottolino" gli si era attaccato ai pantaloni mentre passava per una strada dove, evidentemente, era stato abbandonato. Fu così che dovetti abituarmi in tutta fretta a una nuova, caotica routine: tende da rifare, poltrone sdrucite, tappeti da ripiegare. a dire il vero, ci provai anche a trovargli un padrone, ma Alberto, appena lo seppe se lo andò a riprendere, trattando male anche la persona che si era offerta di tenerlo. A volte lo chiamava , il mio ragazzo, o anche Pelo Giallo, Cucciolo e con tanti altri nomignoli, giocando con lui, che sembrava veramente aver trovato il suo ambiente ideale.
Comunque devo ammettere che Blues sapeva comportarsi molto bene: non sporcava in casa, era affettuoso con tutti e rispettoso al tempo stesso. Ma, quando vedeva Alberto, impazziva. Facevano corse insieme, si rotolavano sul pavimento, saltavano di qua e di là. La sera, Blues scendeva in giardino e risaliva dopo qualche ora. quando mi affacciavo alla finestra e aprivo la persiana, lo vedevo di sotto con gli occhioni languidi, spalancati. Così scendevo le scale e lo portavo su. Ormai, mi ero rassegnata a quel simpatico intruso, come avevo fatto altre volte, con le scelte bizzarre di Alberto. Era un compito mio, ma ne ero felice. In questo, mi aiutava anche Antonio, che faceva colazione con lui sulle ginocchia, dandogli qualche pezzetto di ciambellone. Così, Blues, pian piano, divenne il compagno di tutti, persino dei miei genitori e dei miei suoceri. Ogni sera, al cancello aspettava i suoi padroni: prima arrivava Antonio, dal lavvoro, e saliva le scale con lui. Poi tornava sotto con Alberto e, insieme a lui, andava in fondo al viottolo, dove c'erano i ragazzi della sua comitiva. Era diventato il cane della compagnia, ormai: un bel cagnolone color miel. Al punto che tutti conoscevano il cane di Alberto e lui sapeva farsi rispettare e accarezzare soltanto da coloro di cui si fidava.

Poi, mio marito andò via di casa per qualche tempo, per lavoro, e Blues lo aspettò invano. Una sera, dopo molto tempo, lo vide arrivre e gli corse incontro con tanta gioia che inciampò dappertutto. Addirittura, mentre lo seguiva, per l'emozione, non riuscì a trattenersi dal fare pipì. Antonio sorrideva nel vedere questa scena e che anch'io ero commossa nel constatare la capacità di ricordare e "sentire" di quel cane che, in fondo, era pur sempre, forse, un animale ""senz'anima"" . Ricordo anche che, quando Alberto era ancora in famiglia, ogni sera, verso le undici, come un orologio svizzero, il cane color miele si appostava sul cancello di casa e lo aspettava. Freddo, pioggia o neve non lo smuovevano. Al suo arrivo, saliva con lui e andavano a letto insieme. Dormiva ai suoi piedi oppure proprio sotto il suo letto. Era commovente vederli abbracciati. Non potrò mai dimenticare quei quadretti "da poster" che entrambi sapevano regalare: un ragazzone bruno con un cucciolo che sembrava un peluche, intorno al viso. Oppure attorciliato in vita come una ciambella, quasi fosse un gatto e non un cane.

Poi Alberto partì per il servizio militare e furono lunghi mesi di attesa: ogni sera, ad aspettarlo al cancello c'era sempre lui, Blues. Finchè un pomeriggio, mentre dormiva beato sull'erba del prato, lo vide sopraggiungere dal viottolo, in fondo alla strada. Arrivava dalla stazione, il mio Alberto, in congedo per la sua prima licenza. Chi si accorse del suo ritorno fù proprio lui, il fedele cane Blues che, in quattro balzi, gli fu accanto e gli saltò adosso.

Alberto rideva e lo accarezzava e persino gli altri ragazzi della compagnia, accorsi dai dintorni per aver saputo della sua venuta, erano visibilmente commossi. Mio figlio era partito con le scarpe da tennis, la maglietta e i jeans ed era tornato in divisa: eppure, Blues lo sentiva ancora ugualmente come il solo padrone e amico. In quel rapporto unico, c'erano tutti i loro giochi, le loro intese, i loro complotti, il loro scambiarsi affettuasità esclusive. Così, continuo la vita finchè Alberto fu assegnato a un corpo speciale, grazie al quale poteva tornare a casa a dormire tutte le sere.
In quel periodo dalle undici a mezzanotte, una palla di pelo color miele si appostava vicino al cancello di casa, ogni sera, attendendo l'arrivo dell'amico; con lui saliva e con lui scendeva il mattino alle cinque in punto, quando Alberto si recava in caserma per l'alzabandiera.

Ma una sera, era il 13 settembre 1993, Alberto non tornò a casa. Blues lo attese invano, per giorni. E lo attese a non finire, incurante del tempo e dell'avanzare degli anni, ogni sera, alla stessa ora. Nonostante Alberto fosse morto. Ricordo che i primi tempi, totalmente annichilita e schiacciata dal dolore che non svanisce mai, mi recavo tutte le sere in garage. Una volta lì, mi chiudevo dentro la macchina di Alberto per piangere liberamente:

Una sera, a cui ne seguirono tante altre, mi accorsi che fuori dal garage venivani tre, quattro, cinque cagnolini al seguito di Blues e mi guardavano silenziosi. Così presi ad andare regolarmente di sotto, portando loro qualcosa da mangiare: ogni giorno, per tutti quegli anni, la stessa cerimonia. I voconi di casa cominciarono a vedermi un pò come la mamma dei cani, O, forse, a compatirmi segretamente per non aver più nessuno da accudire, se non pochi cani randagi. Naturalmente, Blues continuava a sapere bene quale fosse la sua casa, ma difficilmente saliva le scale. Viveva di sotto, ormai, nel suo regno di cani senza padrone, pur non primeggiando su nessuno di essi. A volte lo sentivo giù, nell'ingresso, lamentarsi sommessamente. Altre, guaire e piangere, quando raramente saliva le scale. E, allora gli aprivo la porta e lui si accomodava in cucina, dove rimaneva sino al mattino. Tuttavia, non lo vidi mai più andare in camera di alberto, ne salire in mansarda, luogo dei giochi e delle capriole. Erano passati quasi dieci anni da quella notte del '93 e mai Blues aveva cessato di attendere il mio ragazzo.

Poi, per lui, c'era stato un peggioramente delle condizioni di salute che, data la situazione in cui aveva vissuto, sempre di sotto, in giardino, l'avevano fatto ammalare. Così si era sfinito un pò alla volta. Aveva subito quattro interventi e l'avevo curato con ogni tipo di farmaco. Ma un giorno di fine agosto del 2003, prima di subire io stessa un ricovero urgente in ospedale, capii che non vi era più nulla da fare. Lo sistemai nella mia auto, mentre lui mi guardava con i suoi occhioni languidi e stanchi. E pensai ad alta voce:"Ti voglio bene, povero pallottolino spellacchiato e stanco, che neppure ti lamenti più". Poi lo lascia dal veterinario e, con un dolore sordo nel cuore, dissi al medico: ""Devo ricoverarmi con una certa premura, dottore: Faccia lei ciò che meglio crede. Ma non mi chieda cosa. Mi telefoni fra qualche giorno, se riuscirà a guarirlo, altrimenti non dica nulla. Mi farò viva io"": Passaroni i giorni, fui dimessa dalla clinica, ma non ebbi il coraggio di telefonare: Capivo quel silenzio, ma speravo, speravo. Poi, un giorno mentre eravamo tutti alla messa in suffragio di Alberto, durante la comunione, alle sei e mezzo, sentii distintamente quell'inconfondibile ""caì, caì, caì"". Nel cortile della chiesa non c'erano cani e, così, capii che qualcosa doveva essere avvenuto.
Tornammo nella sagrestia e, mentre salutevamo il sacerdote che aveva officiato la cerimonia, distintamente si ripete il guaito: Non c'erano dubbi: Bluesmi era accanto: L'avevo chiesto ad Alberto, qualche giorno prima del mio ricovero:"Aiutalo, prendilo con te. Sono dieci anni che ti aspetta, ogni sera. E' l'ultima cosa vivente che mi resta di te, figlio mio, ma non posso vederlo soffrire così".
Il martedì successivo telefonai al medico:"Signora, lunedì scorso, mi sono deciso. Non c'era più niente da fare, ormai, soffrieva e null'altro. Ho fatto in modo che si addormentasse per sempre, senza provare dolore."     "L'ho saputo dottore, l'ho saputo; alle sei e mezzo vero?"      Egli confermò.
Dopo qualche giorno, sognai il cane di mio figlio che faceva salti da un divano all'altro con il suo padrone, e una grande pace subentrò allo sconforto. Oggi, mi è caro pensare a una palla di pelo color miele che si rotola fra le nuvole, in braccio al mio Alberto, finalmente uniti, lassù, in quel paradiso in cui credevo da bambina.



Storia vera di Grazia Z. da me letta nel giornale confidenze n°42 * 22 Ottobre 2013
fedelmete trascritta perchè mi ha commossa moltissimo ma sopratutto a commosso mio marito che non crede mai a nulla.


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